Tutto ciò si può dire anche dell’opera La ballerina, (bronzo, 2000); di derivazione brancusiana ( e qui, come sopra, il parallelismo è da intendersi per l’orientamento verso una stilizzazione delle forme in volumi chiaramente essenziali e conchiusi) per l’esilità delle forme e delle braccia allungate, in una posizione molto simile all’Angelo, che però si manifesta in virtuosi serpeggiamenti, in un drappeggio plastico che ricorda quasi dei petali di una rosa, che forma delle pieghe dolci nel bronzo. Qui l’opera è sapientemente patinata, e ciò le fa acquisire un’attenzione alla ricerca di forme sintetiche, ponendo un limite al realismo. L’occhio percorre rapidamente questa figura alta e sinuosa, si sofferma sull’arco gentile che non fa pensare ad alcuno sforzo fisico da parte di questa ballerina che si libra nell’aria, quasi volando (essa non ha piedi). Nell’opera in oggetto la scultrice mostra una forte capacità di trovare equilibrio tra movimento e staticità. Questa figura femminile’ quasi ancorata al terreno dal panneggio dell’abito che parte solo dalla vita in giù, dà il senso del collegamento tra la terra e l’aria.
Mi pare che in quest’opera sia ben resa una potenzialità femminile solo apparentemente contradditoria, la capacità di volare alto e agire nel concreto. Mi sembra la stessa capacità indagata, con altre modalità, da due diversi artisti, in pittura: Leonardo e Picasso. ln Leonardo è resa attraverso l’inserimento della figura femminile (S. Anna, 1a Vergine) in una struttura piramidale, mentre in Picasso donne dagli enormi piedi danno il senso di appartenenza alla terra rastremandosi poi verso l’alto.
Un’altra opera, in bronzo dal titolo “L’estasi della danza” rappresenta due ballerine dalle allungate silhouette riprese l’una di spalle e l’altra di profilo, nel bel pieno dell’esecuzione di un’ardimentosa coreografia. La derivazione qui, sfocia vagamente nel Liberty dei primi del Novecento, per le forme lisce, sinuose ed eleganti. Il movimento delle loro scattanti e spigolose sagome, di una scarnita sottigliezza, appare accresciuto dalle vivaci striature che in alcune parti le circondano: a tal proposito merita rilevare l’importanza che nella scultura di Adriana Montalto assume il trattamento delle superfici, sulle quali talvolta interviene il colore, non solo nelle opere in terracotta ma anche nei bronzi.
Con il ricorso al colore la scultrice non si propone di conferire un carattere più realistico alle immagini e nemmeno di commentarne le vicende plastiche o costruttive: l’estrema libertà e l’imprevedibilità delle sue applicazioni corrispondono allo stesso estro immaginativo ed alla stessa foga creativa con cui ella si impadronisce della materia da modellare, da scolpire, da incidere, suscitandola alla vita con una prorompente immediatezza che si direbbe scaturita di getto dall’emozione che dona forma visibile. Solo in un ambito così poco sollecito di problemi spaziali si chiarisca il decorativismo del fondo, limitatissimo per queste due ballerine, ma comunque pullulante di drappi ondulanti, di linee e curve.
Su questa linea, spicca fra le sculture una in particolare ” Tra Forma e Figura” di arditissima concezione che rappresenta una figura femminile fortemente stilizzata (infatti solo dall’accenno all’acconciatura gentile e la forma aggraziata ci fanno pensare a una donna, o, per meglio dire, un’adolescente) forse un’altra esilissima ballerina, che si sta librando nell’aria, racchiusa però fra due allungati triangoli scolpiti in legno, dei quali uno di essi fornisce una sorta di basamento all’opera che altrimenti sarebbe sospesa nell’aria; tutto grida alla vita in ciò che ha di più misterioso. Ella vuole liberarsi in aria, tenta di scappare attraverso la sua danza, la sua arte. Riletta in chiave astratta potremmo dire che l’impulso è frenato ancora una volta dall’attaccamento necessario alla madre terra. Qui Adriana Montalto vuole comunicare un distacco dal mondo delle false apparenze per quello del pensiero. La dolce e drammatica allo stesso tempo tendenza verso l’alto e il trascendente le dona qualcosa di sacro, tutto il suo corpo, dalla schiena tesa ed inarcata, comprese la testa e le braccia, sempre rivolte verso l’alto (motivo caro alla scultrice) ci danno un senso di astrazione. L’opera è una forma pura, a parte il volto qui ben delineato nei lineamenti, impersonale; si assiste a una sistematica e progressiva eliminazione di attributi accessori.
Pare in questa fase che Adriana Montalto accentui il suo gusto per la ricerca della forma – tipo, punto di incontro del principio e della fine, con uno sguardo forse anche alla scultura egizia, cicladica, riassorbendo però tutte le suggestioni in un’unità stilistica esemplare.
Singolare il gruppo dal titolo “Il divino e l’umano” del 1990 realizzato in bronzo. Si tratta di una scena ripresa dal pensiero sacro; l’impiego del materiale difficile da lavorare dona a quest’opera un carattere di estraneità, non priva però di un naturalismo sensibile. Non ci sono ulteriori fronzoli o basamenti a circondare questo gruppo di figure di angeli e donne, mescolati insieme quasi a volersi fondere, eppure esso sembra comunque isolato, protetto dal mondo esterno, impressione forse dovuta anche dalla struttura piramidale della composizione. La giovane donna – angelo inginocchiata in primo piano, è integrata qui in una composizione più vasta e drammatica: è isolata nelle sue mani (nemmeno accennate) e nel suo volto concentrato in una sorta di preghiera, da le spalle al resto del gruppo. In esso ogni figura appare investita da un veemente pathos espressionistico (si noti ad esempio il retro della composizione, tradotto in un vortice di linee a S dal sapore barocco) che in un certo senso le “umanizza” e ne trascende il momento della pura ricerca o esercitazione stilistica.
Una scena che si tramanda da sempre, sempre attuale, che restituisce il senso delle relazioni tra sacro e profano; la diversità del soggetto e della resa artistica e materica è evidente con le opere precedentemente analizzate, questo a dimostrare ulteriormente la poliedricità di un’artista come Adriana Montalto, capace di operare con tecniche e materiali diversi. La sua è una personalità ricca di interessi, di attenzioni, con una capacità manuale notevolmente sviluppata, sempre attenta a sciogliere l’enigma della verità e fonderla con un saper vedere che si erge ad opera, ogni volta compiuta, ogni volta aperta allo scoprimento di significati nascosti, latenti, profondamente intrisi di sentimento, di emozioni, ma soprattutto di forza comunicativa.
Un’altra stupenda e commovente composizione in bronzo con base in legno è Presenza d’amore, (2010). Un angelo senza volto tenta di librarsi con le sue ali che ricordano due foglie stilizzate e di portare con sè una presenza accovacciata di cui non vediamo il volto, ma solo l’atteggiamento, implorante, che invece lo trascina vero il basso.
La figura senza volto e l’angelo sono fusi insieme in una sorta di drappo arrotolato, tormentato, fra le loro mani unite. Ritroviamo qui il contrasto fra le striature delle ali dell’angelo, la resa filamentosa dei capelli e i corpi, lisci e nudi. Quest’opera ha un effetto di movimento che coinvolge tutta la composizione, anche nella figura inginocchiata e tesa nello sforzo di lasciarsi andare, Un movimento interno percuote l’opera, che si amplifica lungo una diagonale che accentua la plasticità delle figure e la loro drammaticità.
Oltre agli influssi già accennati. fra i quali l’opera di Medardo Rosso, Brancusi e la cultura egiziana, non è da escludere nemmeno uno sguardo verso il realismo naturalistico e l’iconografia bizantina, in un percorso da inventario multiforme.
Esemplare in questo senso è il gruppo di opere realizzato in occasione della mostra personale dell’artista siciliana dal titolo Memorie d’Africa. svoltasi nel 2006. negli spazi del Centro Congressi Marconi della città di Alcamo (TP).
Vi sono figure di varie dimensioni. altro indice della versatilità di quest’artista a suo agio nelle piccole composizioni quanto in quelle più imponenti. Si tratta, per lo più, di donne di colore realizzate in bronzo fuso con la tecnica della cera persa viste nella loro accezione più autentica e incontaminata, a contatto con la madre terra, ma private della propria identità in un paese spesso tangibilmente ostile e diffidente. Esse non sono né gracili, né sinuose o sensuali, né esili o allungate; sono le donne che popolano la terra d’Africa, cara all’artista in ragione ai suoi frequenti viaggi proprio in quei territori. L’intensità della veridicità di queste donne è lampante e allo stesso tempo disarmante: sono memorie vere e proprie, prese si dal vero, ma rese personali dal suo estroso modo di comunicare il suo pensiero fantastico, che mantiene col bronzo le cromie di quei luoghi, colti nella loro quotidianità e suggestione.
Nel pensiero artistico di Adriana Montalto le popolazioni africane dalla loro terra, calda e avvolgente, si ritrovano in un mondo in cui la tecnologia e il progresso rischiano di annientare loro l’anima e la coscienza.
L’artista oltrepassa la dimensione superficiale per penetrare più a fondo il significato trascendentale e sociale. Sono testimonianze di vita, di un’umanità semplice e terrestre, rappresentata con immediatezza sotto la naturale influenza di un’arte primitiva rivisitata dalla Montalto in chiave moderna, con forme comunque pose ed eleganti.
Vi ritroviamo raffigurate giovani donne, madri, bambine, dai profili africani, che sembrano incedere lente, flessuose, in movimenti in cui predomina un’assoluta libertà formale e una grande forza plastica e che immergono in un’atmosfera piena di mistero e fascino antico.
Tutte le creazioni di Adriana Montalto nel perseguimento di una sintesi formale, di una saldezza e impenetrabilità di volumi che le spogliano di ogni accidentalità contingente e le sottraggono anche alle mutevoli vicende della luce e dell’ombra, appaiono proiettate in un’aura mitica dalla quale traggono l’aspetto e l’assolutezza di solenni archetipi primordiali: la loro vitalità si concentra nel loro interno dinamismo, talvolta rattenuto in sobrietà di pose e di gesti talaltra al contrario espresso con una veemenza inaudita che scardinando ogni tradizionale impianto compositivo si configura in invenzioni di fresca novità, pur rispondenti ad una visione drammatica e sognante dell’esistenza e della storia che è andata maturandosi nel profondo della coscienza dell’ artista.
Infine è esemplare di tutta la produzione dell’artista l’opera “Exstasis” sinuose, lisce, levigate dove il possesso di un linguaggio straordinariamente ricco di potenzialità consente alla scultrice di elaborare, senza venir meno ad una fondamentale coerenza di stile.
Il conte Daniele Radini Tedeschi, storico dell’arte, critico e curatore, è nato a Roma e si è laureato in Storia dell’arte moderna all’Università degli Studi di Roma “La Sapienza” discutendo la tesi dal titolo L’estetica del simile e del peggiore nella pittura del Seicento. Da anni si occupa di estetica barocca e rinascimentale, in particolare dei rapporti tra arte, religione e società.
Attualmente è stato nominato, nell’ambito della 56º Edizione della Biennale di Venezia, Direttore del Padiglione Nazionale Guatemala dal Ministero della Cultura Guatemaltese.